Editoriale
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Riflessioni sul trattamento del carcinoma colo-rettale avanzato e delle metastasi epatiche


Rielaborazione di una nota introduttiva al convegno: “Stato dell'arte nel trattamento del carcinoma del colon-retto e delle metastasi epatiche”, Padova, 28 ottobre 2011.

Numerosi e importanti progressi sono stati fatti negli ultimi decenni nel trattamento del carcinoma colorettale, tumore fra i più frequenti in entrambi i sessi. Senza dimenticare l'enorme contributo dato al miglioramento dei risultati complessivi dalla prevenzione secondaria con gli screening e l'asportazione endoscopica dei polipi, lo scopo di questa nota è soprattutto quello di mettere in evidenza il complesso lavoro che è stato fin qui compiuto per il trattamento delle forme avanzate, sia a livello del tumore primario che delle eventuali metastasi epatiche. Si tratta di situazioni di frequente riscontro clinico, più volte discusse nei convegni medici, ma non c'è dubbio che questi argomenti meritino un periodico ripensamento soprattutto per le frequenti sollecitazioni che ad essi derivano da nuovi studi clinici, dalla ricerca di laboratorio, dalle proposte di nuovi farmaci e di nuove tecnologie.

I quesiti aperti sono ancora molti, ma quelli di cui si discute, siano essi ereditati dal passato, che emersi nel presente, costituiscono il fronte di avanzamento di una duplice forma di crescita: una di tipo "tecnico", i cui aspetti sono forse più familiari ai medici che si occupano di questi problemi e una "culturale", evoluzione inevitabile e parallela senza la quale la prima non si sarebbe potuta realizzare.

Per rendere il discorso più semplice e schematico, prenderò in esame separatamente le diverse situazioni patologiche: in primo luogo quella del tumore primario colorettale avanzato, ma non metastatico (stadi 2° e 3°), con maggiore focalizzazione sul retto, dove sono ancora aperti non pochi argomenti di discussione e, come seconda, quella delle metastasi epatiche. Due problemi che successivamente confluiscono, in un terzo, quando, non infrequentemente, si trovano associati sincronicamente, nello stesso paziente (stadio 4°), a rendere più complesso il problema decisionale.

Mi accompagnano due considerazioni: la prima è quella di aver vissuto personalmente (se non altro per ragioni anagrafiche), alcune delle tappe iniziali nell'evoluzione di questi trattamenti, non certo le primissime della chirurgia del colon e del retto, ma diciamo quelle di maggior portata multidisciplinare, avvenute più o meno negli ultimi 40 anni e la seconda perché ho osservato questa evoluzione con gli occhi del chirurgo che, all' inizio attore solitario, s'è visto un po' alla volta affiancare (quasi "a dover subire") altre collaborazioni, per arrivare al momento attuale in cui, qualche volta, si pensa di poter fare a meno di lui.

Il trattamento del cancro del retto è stato a lungo considerato un problema di tecnica chirurgica, impegnato, per le forme medio-basse, nella ricerca di un’alternativa che consentisse la conservazione della funzione sfinteriale evitando l'intervento di Miles (resezione anteriore bassa, interventi secondo Toupet, transanali, etc.), aspetto tecnico che è durato fino all'arrivo, liberatorio, negli anni ottanta, delle suturatrici meccaniche. Negli stessi anni il trattamento dei tumori solidi, in generale, è stato a lungo prigioniero di un dogma culturale cioè dalla dottrina della radicalità chirurgica, basata sul concetto di diffusione inizialmente locoregionale della neoplasia e di conseguenza sulla necessità di interventi sempre più ampi e demolitivi, nell’illusione di aumentare la curabilità.

Per lo stesso paradigma della locoregionalità, la chirurgia del cancro del retto poteva essere al massimo associata alla radioterapia: all' inizio il paziente incontrava il chirurgo e poi il radioterapista. Più tardi si è cominciato a discutere, a lungo, all'interno della stessa logica, se fosse meglio irradiare il tumore del retto, prima o dopo l'intervento chirurgico. Ma se consideriamo anche il colon oltre che il retto, appare più chiara l'importanza evolutiva del momento in cui è caduta questa ideologia di radicalità chirurgica e la contemporanea entrata in scena dell'oncologo medico con l'efficacia dei suoi trattamenti adiuvanti e neoadiuvanti. Questa è stata un’acquisizione scientifica, ma anche e soprattutto un’evoluzione culturale perché, oltre che cambiare il paradigma dello sviluppo tumorale, ha aperto la strada alla multidisciplinarietà e alla comprensione del valore aggiunto che proveniva dal mettere assieme visioni e potenzialità diverse sullo stesso problema.

Da parte sua il chirurgo abbandonava, non senza qualche rimpianto, il paradigma della chirurgia radicale per assumerne uno di chirurgia "adeguata", più adatto alle imposizioni, ma anche ai vantaggi della nuova alleanza. Chirurgia adeguata che nel cancro del retto responsivo al trattamento neoadiuvante può essere ormai ridotta ai minimi termini dell'escissione locale, con la sorpresa talvolta di non trovare più la neoplasia.

Anche per le metastasi epatiche il problema è stato inizialmente solo chirurgico pur essendo cominciato più tardi, nella seconda metà del 900 e oltre. Per la resecabilità delle metastasi a scopo curativo si richiedevano criteri rigidi fra cui il controllo completo del tumore primario, il numero limitato di lesioni (da una a 4 o 5), un margine libero di almeno un centimetro, la presenza di sufficiente funzionalità epatica residua, dimensioni e posizione delle masse rispetto alle strutture del fegato per la cui migliore comprensione si è dovuto attendere lo sviluppo e l'affinamento della tecnologia di immagine.

Per le non operabili, ammesso che il problema del tumore primario fosse risolto o comunque affrontabile, si sono tentate molte strade: da quelle locoregionali nelle loro svariate e molteplici espressioni, (ablative o infusive), a quelle sistemiche di chemioterapia con farmaci o combinazioni sempre più efficaci. Possiamo dire che anche la chemioterapia sistemica ha avuto all' inizio un limite culturale che è stato quello di trattare con lo stesso protocollo tumori istologicamente simili, ottenendo risposte diverse, fino a che non si è realizzato che per lo stesso tumore potevano esistere categorie diverse dal punto di vista genetico o molecolare.

Una volta chiarito e sviluppato questo problema, soprattutto in tempi più recenti, non sono mancati i casi di metastasi epatiche, inizialmente non operabili, che in seguito a trattamento neoadiuvante sistemico sono diventate resecabili, con percentuali di sopravvivenza a 5 anni, relativamente simili a quelli delle metastasi operabili in prima battuta, o addirittura scomparse con risposta completa.

Veniamo infine a considerare il caso in cui, non infrequentemente, i due problemi si presentano riuniti, nel senso che si pone il quesito di affrontare i due eventi nella loro sincronicità. Le combinazioni possono essere svariate, a seconda che il tumore primario sia del colon o del retto, della presenza o meno di altre localizzazioni tumorali, dello stadio e della sintomaticità del tumore, a sua volta in presenza di metastasi resecabili o meno. Problemi talvolta di non facile assunzione decisionale pur anche nelle migliori condizioni di convergenza multidisciplinare.

Argomenti che meritano uno spazio di discussione fra chi si occupa di questi problemi, alla ricerca, se possibile, di nuovi orientamenti o linee guida. Esemplare è il caso del cancro del retto con metastasi epatiche sincrone che è stato per molto tempo indice di inoperabilità e indirizzato al confezionamento di una colostomia seguita da trattamento palliativo. Oggi questa barriera è in buona parte caduta anche se il cancro del retto al 4° stadio riserva sempre una difficoltà decisionale e tattica a seconda delle variabili di cui abbiamo detto, cioè della resecabilità o meno delle metastasi epatiche, dello stadio del tumore primario e della eventuale presenza di malattia extraepatica.

Molti problemi tecnici sono stati risolti in questi tempi e diverse armi si sono aggiunte al bagaglio degli specialisti: il chirurgo ha avuto, oltre alle suturatrici, la tecnica dell'asportazione del mesoretto, l'endoscopia operativa, la TEM, la laparoscopia, la robotica, l'ecografia operativa per il fegato etc.), il radioterapista ha avuto e continua ad avere a disposizione nuovi e più sofisticati mezzi di irradiazione, l'oncologo medico ha potuto usare sempre più nuovi chemioterapici di maggior efficacia o combinazioni di farmaci cui sia le metastasi che il tumore primario possono rispondere. Inoltre la ricerca gli ha messo a disposizione farmaci biologici, diretti contro specifiche proteine coinvolte nella progressione tumorale, armi di precisione da associare o meno alla chemioterapia. Il tutto senza dimenticare l’indispensabile collaborazione del radiologo e del patologo.

Ma i soli aspetti tecnici non avrebbero portato lontano. Perché, come abbiamo detto, il progresso è fatto di tecnologia e cultura, anche se talvolta non è facile dire dove finisca l'una e cominci l'altra: abbiamo già detto della cultura maturata con i trattamenti adiuvanti e la multidisciplinarietà; cultura che in questi anni è cresciuta con la frequentazione e lo scambio di idee con i colleghi italiani e stranieri, con la partecipazione agli studi clinici controllati, nazionali e internazionali, con il credito assunto dall'EBM, e dai livelli di evidenza; infine, ma assolutamente decisivo, l'avvicinamento reciproco della clinica al laboratorio di genetica e di biologia molecolare e al raccordo con il patologo che con le analisi del siero e del tessuto bioptico ci informano sui fattori prognostici e predittivi che sempre più orientano sull’opportunità o meno di usare un determinato farmaco in un determinato paziente, sulla strada di una terapia sempre più personalizzata.

Finora s’è parlato di un progresso tecnico e culturale focalizzati sul tumore, ma non possiamo ignorare che altri problemi, essenzialmente culturali e altrettanto importanti, sono venuti maturando in questi anni, centrati in particolar modo sul rapporto medico-paziente e i relativi aspetti decisionali.

In primo luogo si è avvertita l'esigenza di superare il vecchio paternalismo a favore di una maggiore autonomia di scelta del paziente assieme alla necessità di una comunicazione ampia e approfondita, tale che le diverse opzioni siano spiegate chiaramente al malato, con il loro rischio e beneficio, affinché la decisione sia davvero condivisa o rifiutata, e l'eventuale consenso sia realmente informato.

Non va dimenticato in questo rapporto l'equilibrio da ricercare fra una efficace azione terapeutica e la qualità di vita del malato, sia nei casi ad evoluzione favorevole, ma soprattutto in quelli in cui ci si renda conto che la sconfitta del cancro non è più un obiettivo raggiungibile, ma ci siano le condizioni, rese sempre più disponibili dalla ricerca, di limitarne i danni, trasformando la neoplasia in una malattia cronica con cui sia possibile convivere. Anche in questo caso stiamo assistendo ad un lento cambiamento di paradigma, che porta a spostare l'attenzione dalla "quantità" di vita a quella della "qualità" della vita residua.

Infine un altro aspetto importante che appartiene al problema decisionale è quello del limite che si deve porre al trattamento delle forme avanzate. Quando ci si deve fermare, quando si deve passare dal programma di cura a quello del non fare o del trattamento palliativo, momento arduo e critico della multidisciplinarietà, purtroppo non raramente ignorato.

Per concludere possiamo dire di essere passati in questi decenni da paradigmi di fissità ideologica a uno di sostanziale variabilità e selezione, reso necessario da un aumento generale della complessità. Complessità alimentata dalla ricerca, dimostrata sempre più dalla diversità molecolare di un tumore dall'altro, di un paziente dall'altro e dalla variabilità delle opzioni terapeutiche. Complessità cui dobbiamo essere preparati a dare, con l'aiuto della ricerca, una risposta consapevole ed efficace, che tuttavia non potrà essere solo tecnica, perché non va dimenticato il dettato antropologico che un buon rapporto di fiducia e di empatia tra medico e paziente fa parte della cura.


MARIO LISE
Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Oncologiche, Università degli Studi di Padova


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